Un recente studio condotto dall’Università di Padova e dall’Ospedale di Vicenza, pubblicato sulla rivista Chemosphere, evidenzia come l’esposizione prolungata ai PFAS possa alterare il metabolismo del calcio, con potenziali effetti negativi sulla salute delle ossa. L’analisi, che ha coinvolto oltre 1.170 residenti nell’area rossa del Veneto, ha confermato il legame tra questi inquinanti e l’aumento della liberazione del calcio circolante, sollevando ulteriori preoccupazioni per la salute pubblica. Lo studio, finanziato dalla Regione Veneto attraverso il Consorzio per la Ricerca Sanitaria (CORIS), che è stato condotto tra il 2021 e il 2023, ha preso in esame i livelli plasmatici di PFAS, calcio, vitamina D e paratormone, evidenziando un’associazione tra l’esposizione a queste sostanze e un aumento del calcio sierico.

I risultati confermano l’effetto diretto dei PFAS sull’osso, indipendentemente da fattori legati allo stile di vita o alla dieta. La scoperta solleva interrogativi sulle implicazioni di lungo termine di questa esposizione, richiamando l’attenzione su misure di prevenzione e interventi mirati per ridurre i rischi sanitari associati.
Pfas: un pericolo invisibile per le ossa
I PFAS (sostanze perfluoroalchiliche) sono composti chimici utilizzati in diversi settori industriali e di consumo come pentole antiaderenti, abbigliamento impermeabile (come la tecnologia Gore-Tex fino al 2021) e cosmetici, ma il loro impatto sulla salute è da anni oggetto di studio. Il professor Carlo Foresta, coordinatore della ricerca, spiega che uno degli effetti più evidenti dell’esposizione ai PFAS è la riduzione della densità ossea. “Abbiamo spiegato questo effetto dimostrando un’attività negativa dei PFAS sul recettore della vitamina D, ormone che favorisce la calcificazione dell’osso e l’assorbimento intestinale del calcio dalla dieta, nonché un deposito di queste sostanze nell’idrossiapatite, la principale componente inorganica dello scheletro dove lega il calcio stesso favorendo la solidità ossea”, afferma Foresta. Questa ricerca conferma quanto già osservato in precedenti studi, il suo team aveva infatti già precedentemente riscontrato una riduzione della densità ossea nei giovani diciottenni dell’area rossa del Veneto.
I risultati dello studio
La ricerca, durata quattro anni, ha coinvolto 655 uomini e 519 donne tra i 20 e i 69 anni residenti nelle aree più contaminate. Gli studiosi hanno analizzato i livelli di PFAS, calcio, vitamina D e paratormone nel sangue, scoprendo che concentrazioni elevate di PFAS corrispondono ad un aumento direttamente proporzionale di livelli più alti di calcio circolante. Il professor Andrea Di Nisio, primo autore dello studio, spiega che l’aumento del calcio nel sangue può dipendere da tre fattori: maggiore assorbimento intestinale, aumento del paratormone o rilascio del calcio dalle ossa.
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“Abbiamo dimostrato che la ben nota associazione tra PFAS e osteoporosi, ormai dimostrata a livello internazionale, non è tanto mediata da una riduzione di vitamina D, quanto da un’azione diretta dei PFAS sull’osso con conseguente liberazione di calcio”, chiarisce Foresta, spiegando come l’azione degli inquinanti sia diretta sull’organismo e non associata ad un’alterazione di alcun tipo. Lo studio evidenzia quindi come queste sostanze, presenti nell’uso quotidiano di tanti italiani, possano creare uno stato di allerta elevato per la salute pubblica. L’aumento della fragilità ossea con conseguente osteoporosi, condizione generalmente associata all’invecchiamento, si sta manifestando anche tra i giovani laddove avvenga un’esposizione agli PFAS, anche se di basso grado.
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