La Strategia nazionale per la Biodiversità al 2030 rappresenta lo strumento per raggiungere, in Italia, l’obiettivo di garantire che entro il 2050 tutti gli ecosistemi siano ripristinati, resilienti e adeguatamente protetti, individuando azioni specifiche per il nostro Paese e indicatori sviluppati appositamente per verificarne il raggiungimento.

Canale Energia ha svolto un focus sull’Area suolo della Strategia nazionale, intervistando l’ing. Michele Munafò, responsabile dell’Area “Monitoraggio e analisi integrata uso suolo, trasformazioni territoriali e processi di desertificazione” di Ispra, a cui ha preso parte anche il dott. Fabio Pascarella, responsabile “Area per la caratterizzazione e la protezione dei suoli e per i siti contaminati”.

Qual è la valutazione dell’Istituto sulla Strategia della biodiversità 2030 in merito all’area dedicata al suolo, ci sono dei punti che vanno approfonditi?

L’obiettivo strategico del ripristino degli ecosistemi non può che concentrarsi, tra gli altri sul suolo, una risorsa essenziale per l’equilibrio degli ecosistemi, fragilissima, limitata e fondamentalmente non rinnovabile, di vitale importanza sotto il profilo ambientale e socioeconomico. Ospita circa il 25% della biodiversità mondiale, che fornisce servizi ecosistemici fondamentali, tra cui la produzione di cibo, biomassa e materie prime, il controllo dell’erosione e la regolazione degli elementi di fertilità, della qualità dell’acqua, la protezione e mitigazione dei fenomeni idrologici estremi, riserva genetica e la conservazione della biodiversità. 

Per questo, coerentemente con la nuova Strategia europea per il suolo per il 2030, sono definiti anche specifici obiettivi di tutela del suolo e di ripristino delle aree degradate, legati in particolare all’identificazione e alla bonifica dei siti contaminati e alla riduzione dell’inquinamento diffuso. Nonché alla riduzione del tasso di occupazione del suolo, al fine di raggiungere il valore pari a zero del consumo di suolo e al raggiungimento della neutralità del degrado del suolo. 

La protezione del suolo e il suo uso sostenibile sono diventate priorità all’interno delle strategie europee e globali, ma devono sicuramente essere maggiormente approfonditi, dal punto di vista delle azioni concrete da porre in essere, le relazioni che si hanno con le diverse politiche ambientali, climatiche, urbane, agricole e forestali e con il ruolo importantissimo delle Regioni e degli Enti locali, in particolare nell’ambito del governo del territorio. 

Solo attraverso una pianificazione territoriale e urbanistica che metta al centro la tutela e il ripristino degli ecosistemi e, in particolare del suolo, che troppo spesso è stato considerato solo la base per le attività antropica e per lo sviluppo urbano e infrastrutturale, sarà possibile infatti, arrivare a questi ambiziosi obiettivi.

Tra gli obiettivi c’è quello di raggiungere la neutralità del degrado del suolo entro il 2030. Quali devono essere le azioni prioritarie da mettere in campo che promuovano soluzioni a lungo termine? 

Si stima che, circa il 28% del territorio nazionale presenti almeno un fattore significativo di degrado che è generalmente causato da diversi processi come: i cambiamenti di uso del suolo, l’impermeabilizzazione, gli incendi, pascolo e agricoltura intensiva, l’erosione, la salinizzazione, la contaminazione e, non ultimo, il progressivo aumento degli indici di aridità e degli eventi climatici estremi (siccità, piogge intense, alluvioni, etc.). Questi processi possono portare alla riduzione dello strato superficiale del suolo, con perdita di biodiversità, di attività e diversità microbica, di sostanza organica, di stock di carbonio, di fertilità e, quindi, della sua intrinseca capacità produttiva in senso biologico ed economico, fino ad arrivare all’estremo degrado individuabile nei processi di desertificazione. 

Raggiungere la neutralità del degrado del territorio, come richiamato anche dagli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, è fondamentale, perché il processo è indissolubilmente legato alla perdita di biodiversità e agli impatti dei cambiamenti climatici e perché il degrado del suolo sta avanzando a un ritmo allarmante, contribuendo a un drammatico declino della produttività delle terre coltivate e dei pascoli ovunque. È ritenuto uno dei problemi ambientali più urgenti al mondo e senza una rapida azione correttiva non potrà che peggiorare ulteriormente.

È per questo che la tutela, il ripristino e l’uso sostenibile dei suoli andrebbero inclusi all’interno di tutti gli strumenti di pianificazione urbanistica e territoriale, dei piani strategici della Pac. 

Per farlo, tuttavia, occorre definire una metodologia e i relativi indicatori che possano permettere la valutazione del livello di degrado del suolo a livello nazionale e locale, partendo da quelli globali, ma considerando le caratteristiche specifiche del nostro territorio. 

È anche necessario adottare misure a lungo termine appropriate per prevenire e mitigare il degrado, in particolare riducendo l’uso dell’acqua e adattando le colture alla disponibilità idrica locale, insieme ad un uso più esteso dei piani di gestione della siccità e all’applicazione di una gestione sostenibile del suolo. Bisogna inoltre evitare una nuova impermeabilizzazione di suoli agricoli o naturali, incentivando tecniche e pratiche agricole sostenibili da un punto di vista ambientale e un minor utilizzo di prodotti fitosanitari di sintesi e fertilizzanti. 

In linea con gli orientamenti della Strategia europea per il suolo e per un ambiente edificato sostenibile in preparazione, è prevista la sotto-azione di approvare ed attuare una legge nazionale sul consumo del suolo che lo consideri come bene comune e risorsa non rinnovabile e, stabilisca obiettivi nazionali e regionali coerenti con gli obiettivi di sviluppo sostenibile. In Italia, a che punto è la normativa ambientale sul tema, abbiamo un problema di carenza del quadro legislativo o piuttosto di implementazione dello stesso? Come rafforzarlo?

Secondo gli ultimi dati Ispra-Snpa, quasi due metri quadrati ogni secondo di aree agricole e naturali sono state sostituite da nuovi cantieri, edifici, infrastrutture o altre coperture artificiali. Nel 2020, nonostante i mesi di blocco di gran parte delle attività avvenuto durante il lockdown, il consumo di suolo in Italia ha sfiorato i 60 chilometri quadrati, anche a causa dell’assenza di interventi normativi efficaci in buona parte del Paese o, dell’attesa della loro attuazione e definizione di un quadro di riferimento omogeneo a livello nazionale ed europeo.  

In Italia, dove si rileva l’assenza di una legge nazionale che contribuisca a fermare il consumo di suolo, si stima che nuovi cantieri, edifici, insediamenti commerciali, logistici, produttivi e di servizio, infrastrutture e altre coperture artificiali siano aumentati di circa 15 ettari ogni giorno. Un incremento che è rimasto pressoché costante negli ultimi anni, con una crescita delle superfici artificiali solo in minima parte compensata dal ripristino di aree naturali pari nell’ultimo anno a 5 km2, ovvero meno del 10% delle nuove aree artificiali. In genere, dovuto al recupero di aree di cantiere o di superfici che erano state classificate in precedenza come “consumo di suolo reversibile”. 

E così, la copertura artificiale del suolo nazionale è ormai arrivata a estendersi per oltre 21.000 km2, pari al 7,11% del territorio (era il 7,02% nel 2015, il 6,76% nel 2006), rispetto a una media dell’Unione europea del 4,2%.  

Nel frattempo, sono almeno dieci anni che il Parlamento italiano discute di una legge nazionale che possa permetterci di arrestare il consumo di suolo, senza alcun risultato. 

La prima proposta concreta di legge per la limitazione del consumo di suolo risale al 2012, quando l’allora ministro delle politiche agricole alimentari e forestali presentò il rapporto “Costruire il futuro: difendere l’agricoltura dalla cementificazione” e il disegno di legge “Valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo di suolo”, non approvato a causa della fine anticipata della legislatura. 

La discussione da allora ha riguardato diversi disegni di legge, tra cui: quello di iniziativa governativa del 2014, approvato alla Camera il 12 maggio 2016 e poi fortemente revisionato in Senato, per rispondere ad alcune criticità relative alle numerose deroghe previste, alla complessa procedura di definizione dei limiti e al fatto che non erano stabilite le percentuali di riduzione da raggiungere nel corso degli anni. Ma anche per il mancato rilancio dell’attività edilizia verso una strategia di riqualificazione dell’esistente. Anche in questo caso però, la fine della legislatura non consentì di arrivare all’approvazione finale.

In questa legislatura, sono in discussione diverse proposte di legge, da quelle dedicate specificamente al consumo di suolo a quelle invece dedicate principalmente alla rigenerazione urbana, cui si è aggiunta la discussione relativa al Pnrr, le cui pratiche ricadute sui temi qui di interesse devono ancora essere chiaramente definite.

Proprio con l’invio del Pnrr alla Commissione Europea, il Governo si è impegnato formalmente ad approvare una “Legge nazionale sul consumo di suolo in conformità agli obiettivi europei, che affermi i principi fondamentali di riuso, rigenerazione urbana e limitazione del consumo dello stesso, sostenendo con misure positive il futuro dell’edilizia e la tutela e la valorizzazione dell’attività agricola”. Una legge che, se riuscisse ad arrestare finalmente ed efficacemente il consumo di suolo nel nostro Paese, permetterebbe di fornire un contributo fondamentale per affrontare le grandi sfide poste dai cambiamenti climatici, dal dissesto idrogeologico, dal degrado del territorio, del paesaggio e dell’ecosistema e contribuire positivamente anche alla riduzione dei costi diretti e indiretti dovuti alla perdita di servizi ecosistemici.  

Per raggiungere l’obiettivo dell’arresto del degrado, del consumo e dell’impermeabilizzazione del suolo, è quindi necessario che nelle politiche territoriali si agisca nell’ottica di limitare la futura occupazione del suolo, andando ad agire sulle politiche di governo del territorio e dunque, sulle previsioni di sviluppo dei piani comunali rapportate all’evolversi degli scenari demografici. Ma anche nell’ottica di evitare l’impermeabilizzazione e il consumo di suolo effettivo, sia infine, nell’ambito di politiche e di piani di settore. 

Da molti anni poi, il quadro normativo regionale continua ad evolversi sia sul tema specifico del consumo di suolo, sia attraverso gli strumenti normativi finalizzati a favorire la rigenerazione urbana, tutto in assenza di un riferimento di livello nazionale. 

Il risultato è un panorama complessivamente piuttosto eterogeneo e complessivamente ancora di scarsa efficacia, che comprende disposizioni, normative o principi inseriti in leggi finalizzate al contenimento del consumo del suolo e alla rigenerazione urbana, intesa spesso come alternativa al nuovo consumo di suolo. 

Tuttavia, praticamente dovunque, la definizione di consumo di suolo non è coerente con quella europea e nazionale o comunque, sono presenti deroghe o eccezioni significative relative a tipologie di interventi e di trasformazioni del territorio che non vengono inclusi nel computo (e quindi nella limitazione), ma che sono in realtà causa evidente di consumo di suolo. 

Per ridurre gli impatti negativi del consumo di suolo occorrerebbe lavorare da subito sui tessuti urbanizzati per sanarne le numerose e profonde ferite, dovute a trasformazioni (abusive o legittime) che hanno segnato radicalmente il territorio. 

Le amministrazioni locali dovrebbero essere incentivate a favorire le buone pratiche di rigenerazione e di riqualificazione, partendo ad esempio dagli spazi pubblici più degradati, anche per dare un segnale importante ai cittadini e agli operatori privati e, per stimolare un maggiore orientamento delle politiche territoriali verso la sostenibilità ambientale e la tutela del paesaggio. 

Si dovrebbe adottare da subito la “Gerarchia del consumo di suolo” indicata dalla Strategia europea per il suolo per il 2030 che prevede, in ordine di priorità decrescente, di: 

  1. evitare il consumo e l’impermeabilizzazione del suolo; 
  2. riutilizzare le aree già consumate e impermeabilizzate;  
  3. utilizzare aree già degradate in caso di interventi assolutamente non evitabili;  
  4. in questo ultimo caso, compensare gli interventi per arrivare a un bilancio non negativo di consumo e di impermeabilizzazione del suolo e per mantenere i servizi ecosistemici. 

L’applicazione rigida e diffusa di questa strategia di azione sarebbe ancora più fondamentale per l’Italia, alla luce delle particolari condizioni di fragilità e di criticità del nostro territorio. Rende inoltre urgente la definizione e l’attuazione di politiche, norme e azioni di radicale contenimento del consumo di suolo e la rapida revisione delle previsioni degli strumenti urbanistici esistenti, spesso sovradimensionate rispetto alla domanda reale e alla capacità di carico dei territori. 

L’auspicata ripresa quindi dovrebbe partire dalla necessità di rigenerare l’ambiente e il territorio dove abitiamo, dalle grandi città ai piccoli borghi, riutilizzando e riqualificando l’esistente e il patrimonio costruito.  Bisognerebbe puntare sull’elevata qualità ecologica e paesaggistica, sulla tutela della biodiversità, sulla conservazione e sul ripristino degli spazi naturali interni ed esterni alle città, affinché assicurino servizi ecosistemici indispensabili anche al benessere sociale ed economico. 

Per poter agire in maniera strutturata e coerente con la Strategia, servirà una mappatura aggiornata dei siti del suolo contaminati e una definizione di tipo e grado di contaminazione dello stesso. In Italia, siamo in possesso di dati regionali e nazionali omogenei, quali andrebbero approfonditi? 

La raccolta dati sui siti contaminati è stata avviata nel 2016 dal Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente (Snpa), con i rappresentanti di tutte le agenzie regionali e provinciali e il contributo delle Regioni e delle Province Autonome.

L’attività ha risposto alla necessità della divulgazione di dati affidabili, omogenei e completi a livello nazionale sui siti contaminati, testimoniata dalle numerose richieste di informazioni che arrivano dall’opinione pubblica, dagli stakeholder, dagli organi governativi e decisionali, dall’Agenzia europea dell’ambiente. 

Il lavoro, consistito nella raccolta, sistematizzazione ed analisi di un set condiviso di dati relativi ai procedimenti di bonifica che hanno consentito di descrivere adeguatamente l’iter dei procedimenti e lo stato della contaminazione non è stato semplice. Questo perché seppure la norma di competenza impone la predisposizione da parte delle Regioni e Province Autonome delle anagrafi dei siti da bonificare, la loro struttura risente dei diversi approcci degli enti locali nella registrazione, acquisizione e gestione delle informazioni relative ai procedimenti di bonifica. Il risultato è che i dati contenuti nelle anagrafi, in alcune regioni costituite da semplici banche dati, sono difformi tra loro e spesso non confrontabili.

Inoltre sistematizzazione e analisi dei dati hanno dovuto tenere conto di alcuni fattori quali: la nuova normativa introdotta nel 2006, che ha modificato la procedura e la definizione stessa di sito contaminato, introducendo l’obbligatorietà dell’analisi di rischio in caso di superamento delle Csc. Non solo,  la complessità delle nuova norma rende gli stati di avanzamento difficilmente associabili a quelli della precedente. Oltre a ciò, le già citate differenti caratteristiche formali e sostanziali delle anagrafi regionali e la gestione dei data base a carico indifferentemente delle regioni e/o delle Agenzie.

La raccolta dati, relativa ai procedimenti di bonifica regionali, la cui competenza è in capo alle Regioni o a enti territoriali da esse delegate, escludendo i procedimenti relativi ai Siti di interesse nazionale (Sin) di competenza MiTE, è stata effettuata con cadenza annuale dal 2017 al 2020. 

I dati sono riferiti all’intero territorio nazionale con livello di dettaglio crescente: da regionale (2017) a comunale (2019 e 2020).

I dati – https://annuario.isprambiente.it/pon – mostrano che, il numero totale dei siti oggetto di procedimento di bonifica, intendendo per esso il procedimento amministrativo previsto dal D.Lgs.152/06 e ss.mm.ii., aggiornato al 31/12/2019 è pari a 34.478 di cui 16.264 in corso e 17.862 conclusi.

La superficie interessata dai procedimenti di bonifica, nota solo per una parte di essi (67%), è pari a 66.561 ettari (666 km2) e rappresenta lo 0,22% della superficie del territorio italiano. Di questi, 37.816 ettari sono relativi a procedimenti in corso e 28.745 ettari sono relativi a procedimenti conclusi. 

Pur nella limitatezza dell’informazione disponibile, si può affermare che: allo stato delle conoscenze attuali, una superficie corrispondente all’estensione del comune di Arezzo (22° comune d’Italia per estensione) risulta attualmente implicata in procedimenti di bonifica regionali, quella equivalente al comune di Modica (43° comune d’Italia per estensione) è stata bonificata o svincolata.

A livello nazionale:

  • la bonifica/messa in sicurezza è approvata o conclusa in attesa di certificazione in quasi la metà delle superfici (11.755 ettari pari al 31% dei siti per i quali sono note le aree);
  • si trovano in fase di notifica, quindi nel primo step dell’iter procedurale, 12.927 ettari (34% dei siti per i quali sono note le aree).

Tra le aree restituite agli usi a seguito della chiusura dei procedimenti, quasi quattro ettari su cinque sono restituiti, senza necessità di alcun intervento di bonifica.

Un confronto interessante è quello con i dati di superficie dei Siti di interesse nazionale (Sin), la cui superficie complessiva a terra è pari a 1.721 km2 e rappresenta lo 0,57% della superficie del territorio italiano.

Nel 2020, è stata realizzata Mosaico, la Banca dati nazionale per i siti contaminati che amplia e dettaglia le informazioni disponibili sui siti contaminati. È costituita da un database, da un’applicazione web per il caricamento e controllo dei dati e da applicazioni Web Gis per la visualizzazione dei dati con differenti livelli di accesso e funzionalità (https://mosaicositicontaminati.isprambiente.it/). Nel 2021, è stato avviato il primo popolamento che sarà presentato nel prossimo autunno.

Per migliorare la conoscenza del suolo, esistono già dei sistemi di monitoraggio adeguati della sua qualità, compresa la biodiversità, e dei fattori che ne causano il degrado?

Se in alcuni casi, (si pensi al consumo di suolo, ai cambiamenti di copertura, ai procedimenti di bonifica, etc.) il monitoraggio, in particolare quello a cura del Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente, assicura una base conoscitiva autorevole e frequentemente aggiornata, rimangono forti lacune nelle attività di monitoraggio della qualità del suolo e della sua biodiversità. 

Anche la Strategia europea per il suolo ci ricorda che, a livello europeo, “È fondamentale rendere disponibili una maggiore quantità di conoscenze e dati sui suoli di migliore qualità, così come utilizzare tali conoscenze e dati”. 

Per assicurare un adeguato quadro di riferimento, si dovrebbe istituire una rete di laboratori in grado di monitorare con costanza e precisione le variabili e gli indicatori di qualità e di degrado del suolo, tenendo conto delle condizioni dell’area in esame, dei sistemi di gestione e di copertura del suolo e impiegando metodi facili ed economici per minimizzare i tempi e i costi di analisi. 

Monitorare il degrado del territorio significa applicare un approccio in grado di includere diversi livelli di organizzazione ecologica. Questa va dalla scala maggiore di paesaggio, comunità o ecosistema, scendendo a un maggior dettaglio fino alla specie o popolazione, e infine potendo approfondire le analisi, includere anche il deme o i geni, da identificare e monitorare nel tempo per studiarne i flussi e le dinamiche. 

Occorre identificare gli obiettivi di monitoraggio (internazionali, nazionali, regionali, provinciali, a scala di bacino, di progetto, di azienda) e definirne le strategie operative, i metodi di analisi, le modalità di diffusione dei risultati ottenuti, le valutazioni specifiche e a contorno. Inoltre, identificare e selezionare i metodi di monitoraggio, analizzare e interpretare i dati da integrare nelle strategie di gestione e valutare l’incertezza di tutte le fasi.

Le attività di monitoraggio già oggi sfruttano ampiamente le potenzialità del Programma europeo di osservazione della Terra Copernicus. Questo, attraverso principalmente dati satellitari, fornisce informazioni affidabili e aggiornate che possono bene integrarsi con le attività a terra e che in futuro non potranno che migliorare ulteriormente la disponibilità di informazioni affidabili sullo stato del suolo. 

Anche a livello nazionale, il Piano strategico Space Economy, insieme a quanto previsto anche all’interno del Pnrr, hanno lo scopo della realizzazione di sistemi innovativi per l’elaborazione e l’integrazione dei dati satellitari con altri dati osservati e di modelli, in grado di supportare moltissime applicazioni. Come ad esempio, l’Infrastruttura operativa nazionale per il monitoraggio dell’ambiente a supporto del Snpa, con servizi operativi relativi al monitoraggio del territorio, delle principali risorse ambientali e dell’ambiente costruito, dello stato e degli impatti sul territorio e sul suolo.

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Professionista delle Relazioni Esterne, Comunicazione e Ufficio Stampa, si occupa di energia e sostenibilità con un occhio di riguardo alla moda sostenibile e ai progetti energetici di cooperazione allo sviluppo. Possiede una solida conoscenza del mondo consumerista a tutto tondo, del quale si è occupata negli ultimi anni.