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Dai materiali riciclati ai filati organici, fino ai salari equi per i lavoratori, la moda è piena di dichiarazioni sui modi in cui può mitigare il suo impatto sul Pianeta. Storicamente, tuttavia, la maggior parte delle promesse dei marchi sono state volontarie e i loro progressi “autodichiarati”. In altre parole, non sono stati controllati e non hanno rischiato di essere puniti se, o quando, non hanno raggiunto gli obiettivi. 

Il cambiamento è nell’aria

I governi e i legislatori sembrano essersi resi conto che le aziende non si stanno riformando ad un ritmo e su una scala tali da combattere in modo significativo il cambiamento climatico. Di conseguenza, sia negli Stati Uniti che nell’Unione Europea, quest’anno è emersa una serie di nuove proposte normative volte a promuovere una maggiore sostenibilità nell’industria tessile e della moda.

Se approvate, molte delle proposte di legge potrebbero cambiare ciò che i consumatori vedono sulle etichette dei capi di abbigliamento o persino il design di ciò che si trova sugli scaffali dei negozi. Il movimento riflette anche un allontanamento dall’idea che l’onere di comprare meglio e di comprare meno debba ricadere principalmente sugli acquirenti.

“I consumatori non sono, non possono e non devono essere la forza trainante per cambiare completamente un’industria, anche perché finché sarà facile, veloce ed economico acquistare moda, l’aspetto della sostenibilità dell’offerta sarà sempre una scelta secondaria”, ha dichiarato Michael Schragger, fondatore della Sustainable Fashion Academy di Stoccolma in un’intervista al New York Times dello scorso 3 ottobre. 

Nonostante cresca il gruppo di acquirenti più attenti all’ecologia, gli acquisti di abbigliamento sono quintuplicati dal 1980 ad oggi e l’indumento medio sarà indossato solo sette volte prima di essere smaltito. In parte, secondo Schragger, ciò è dovuto al fatto che le aziende non sono obbligate per legge a rispettare gli obiettivi di responsabilità sociale e aziendale.

“Attualmente devono solo fornire opzioni più ecologiche ai clienti che le desiderano”, ha detto. “Senza una maggiore regolamentazione, i marchi e i rivenditori non hanno la pressione sufficiente, o gli incentivi necessari per cambiare radicalmente i modelli di business”.

La trasformazione del settore moda arriverà dalla regolamentazione 

Qualsiasi cambiamento indotto dalla regolamentazione si farà sentire in tutto il settore, non solo in Occidente, ma anche nella centrale mondiale della produzione di moda rappresentata dall’Asia. Molte proposte potrebbero avere un impatto profondo in questo Paese, portando a un miglioramento degli standard di lavoro e dei livelli di inquinamento, ma anche ad un aumento dei costi associati alle nuove pratiche burocratiche e al passaggio a materiali certificati richiesto dalle leggi. 

Claire Bergkamp, direttore operativo di Textile Exchange, ha suggerito che, nonostante questo sconvolgimento, la legislazione creerebbe un campo di gioco uniforme per un maggiore cambiamento. “Attualmente, i marchi di moda che cercano davvero di essere migliori hanno spesso l’impressione di essere puniti dal punto di vista commerciale e hanno difficoltà a competere finanziariamente con quelli che non adottano le stesse considerazioni”, ha affermato l’autrice.

Le modifiche interne ai diversi Paesi sulla legislazione di settore

Sebbene la maggior parte delle proposte più recenti sia lontana dal diventare legge, alcuni Paesi hanno già apportato importanti modifiche normative interne che richiederanno alle aziende di moda di rivedere il modo in cui producono e comunicano la natura dei loro prodotti. 

A luglio, ad esempio, la Francia ha annunciato che entro la fine dell’anno prossimo ogni capo di abbigliamento venduto all’interno dei suoi confini dovrà recare un’etichetta che ne descriva con precisione l’impatto sul clima. 

Sia la Norvegia che la Germania hanno introdotto una legge sulla due diligence che richiede alle aziende di dimostrare che stanno lavorando per identificare e affrontare qualsiasi impatto negativo sulle persone e sul Pianeta a cui potrebbero aver contribuito; in caso contrario, pagheranno con multe salate e potenziali divieti operativi. 

Sia in Gran Bretagna che nei Paesi Bassi, marchi come H&M e Boohoo sono oggetto di indagini da parte delle autorità locali per dichiarazioni di greenwashing.

Tuttavia, Genevieve LeBaron, esperta di lavoro internazionale presso la Simon Fraser University in Canada, ha osservato che, a fronte di una notevole resistenza da parte di molte aziende, dell’incombente recessione globale e di un panorama geopolitico volatile, la messa in pratica delle proposte di legge sarebbe tutt’altro che semplice.

“Una buona regolamentazione può costituire un ottimo precedente, ma cambiare il modello di business della moda è un compito davvero enorme e costoso”, ha dichiarato. “Il cambiamento non è ancora arrivato”.

Alcune delle principali proposte di legge

Negli Stati Uniti, si è assistito ad una raffica di proposte di legge: Stati come la California, da sempre leader nella regolamentazione ambientale, hanno recentemente approvato una legge che protegge i diritti dei lavoratori dell’abbigliamento. Da allora, ne sono state presentate molte altre che si stanno facendo strada nell’iter legislativo.

La legge Fabric

Il Fashioning accountability and building real institutional change act, noto come Fabric Act, è la prima legge federale americana sulla moda. 

Il disegno di legge mira a migliorare i diritti dei lavoratori dell’abbigliamento e a sostenere l’industria manifatturiera americana dopo decenni di delocalizzazione. Il disegno di legge è attualmente in attesa di essere assegnato a una commissione della Camera per essere studiato, il che significa che potrebbero passare anni prima che arrivi sulla scrivania del presidente.

La legge interesserà i marchi e i rivenditori di moda, nonché i produttori e i fornitori americani dell’industria dell’abbigliamento. Uno dei suoi cinque punti focali, è la definizione di una tariffa oraria per i lavoratori dell’abbigliamento e la fine delle “tariffe a cottimo”, con cui i lavoratori sono pagati per ogni articolo prodotto e non per le ore di lavoro dove i lavoratori non ricevono un salario minimo. Il disegno di legge prevede sanzioni per le violazioni del lavoro e stabilisce misure di registrazione quali un registro nazionale dell’industria dell’abbigliamento. Il disegno di legge incoraggia inoltre i marchi a riportare la produzione di abbigliamento negli Stati Uniti attraverso un sistema di credito d’imposta del 30% per il reshoring. Il progetto non è esente da critiche.

Il settore dell’abbigliamento negli Stati Uniti 

Il settore dell’abbigliamento negli Stati Uniti è un’industria da 9 miliardi di dollari che impiega 95mila persone. I lavoratori del settore sono anche tra i meno pagati del Paese, con una retribuzione di circa 300 dollari a settimana. Le violazioni delle norme salariali previste dal disegno di legge potrebbero comportare per le vittime il riconoscimento di somme a titolo di risarcimento per i salari persi, oltre ad un’ulteriore somma a titolo di risarcimento danni. I datori di lavoro inadempienti potrebbero inoltre essere multati fino a 50 milioni di dollari.

Il Fashion Act

Il Fashion sustainability and social accountability act è un disegno di legge statale che, se approvato, renderebbe New York il primo Stato del Paese a chiedere conto ai maggiori marchi della moda del loro impatto ambientale e sociale.

Interesserà tutti i grandi nomi della moda americana e internazionale, quasi tutti operanti a New York, da quelli di fascia più alta come Lvmh, Prada, Armani, ai giganti del fast fashion come Shein e Zara. 

Il disegno di legge prevede che le aziende di moda che generano più di 100 milioni di dollari di fatturato rendano note le loro catene di approvvigionamento in tutti i livelli di produzione e in quali punti del processo creano il maggiore impatto. Le aziende devono poi ridurre tali effetti in linea con gli obiettivi delineati nella proposta di legge, tra cui, ad esempio, la riduzione delle emissioni di gas serra in linea con l’Accordo di Parigi.

Se approvato, i grandi marchi della moda sarebbero tenuti a ridurre i loro impatti negativi a un ritmo stabilito non dalle aziende, ma dai legislatori. L’impatto del Fashion Act potrebbe non essere immediatamente evidente per i consumatori, ma alcune misure, come un elenco annuale delle aziende che violano la legge, pubblicato dal procuratore generale dello Stato, daranno loro la certezza che i principali operatori del settore sono tenuti a rendere conto del loro operato.

La situazione normativa nell’Unione Europea

A marzo, l’UE ha pubblicato la “Strategia per il tessile sostenibile per il 2030”, un piano che comprendeva alcune delle normative sotto elencate che avrebbero avuto un impatto diretto sull’industria tessile e della moda. Secondo Luca Boniolo della società di consulenza Ohana public affairs, con sede a Bruxelles, la strategia si concentra sulla circolarità dei tessuti e sulla responsabilizzazione dei marchi nei confronti dei rifiuti inviati in discarica.

Il Regolamento sulla progettazione eco-compatibile dei prodotti sostenibili

L’Espr (Ecodesign for sustainable products regulation), come viene chiamato il regolamento proposto, è stato pubblicato a marzo e stabilisce un quadro per migliorare, tra le altre cose, la circolarità dei prodotti. Un “passaporto digitale del prodotto” potrebbe memorizzare informazioni come la durata e la riparabilità del prodotto, identificare le sostanze che potrebbero impedire a un prodotto di essere riciclabile o persino dire quanto filato riciclato viene utilizzato in un maglione. Il regolamento richiederebbe inoltre alle aziende di comunicare pubblicamente la distruzione dei prodotti invenduti.

Affinché la proposta venga approvata, il Consiglio e il Parlamento europeo devono concordare un approccio. Se verrà adottata, si prevede che le norme specifiche per il settore tessile saranno introdotte nel 2025. Ne saranno interessati la maggior parte dei produttori, degli importatori e dei rivenditori dell’Unione Europea, anche nel settore della moda e del tessile.

I requisiti di progettazione eco-compatibile adottati nell’ambito dell’Espr sarebbero gli stessi in tutta l’Unione Europea. Ma poiché le sanzioni sarebbero stabilite dai singoli Stati membri, è difficile dire quanto l’efficacia potrebbe differire da Paese a Paese. I requisiti specifici dei prodotti verrebbero stabiliti nella legislazione secondaria e sviluppati solo dopo l’entrata in vigore dell’Espr. Tuttavia, i prodotti non conformi ai requisiti non potranno essere venduti sul mercato dell’Unione Europea, per cui la normativa avrà probabilmente un impatto significativo sulle modalità di progettazione e produzione degli indumenti.

Due diligence di sostenibilità aziendale

A febbraio 2022, la Commissione Europea ha adottato una proposta che richiederebbe alle aziende che operano negli Stati membri di identificare e rendere conto della tutela dei diritti umani e di ridurre l’inquinamento e la perdita di biodiversità. 

Le aziende sarebbero responsabili non solo delle proprie operazioni, ma anche di quelle di eventuali filiali o fornitori della loro catena di approvvigionamento. Se la proposta verrà adottata, gli Stati membri avranno due anni di tempo per recepire la direttiva nella legislazione nazionale.

Investirà tutte le aziende con più di 500 dipendenti e 150 milioni di euro di fatturato a livello mondiale. Per le aziende con più di 250 dipendenti e 40 milioni di euro di fatturato, le regole entreranno in vigore due anni dopo quelle del primo gruppo. Le autorità nominate dagli Stati dell’UE saranno autorizzate a imporre multe. Le vittime potranno anche intraprendere un’azione legale per il risarcimento dei danni.

La direttiva contro le informazioni ingannevoli e le pratiche commerciali scorrette

A marzo 2022, la Commissione europea ha pubblicato una nuova proposta di modifica della direttiva sulle pratiche commerciali scorrette per regolamentare meglio ciò che le aziende possono o non possono dire ai clienti, con particolare attenzione al greenwashing. 

Le aziende non potranno utilizzare etichette legate alla sostenibilità come “eco-friendly”, “green” o “eco” sui loro prodotti o imballaggi se non esiste una certificazione o un riconoscimento da parte di un’autorità pubblica.

Interesserà tutti i venditori di beni di consumo, come prodotti moda e di bellezza, che nell’Unione Europea potrebbero incorrere in multe. Le regole potrebbero entrare in vigore solo a partire dalla fine del 2025 o dall’inizio del 2026.

Una regolamentazione più severa e norme aggiornate consentiranno ai consumatori europei di evitare di essere ingannati e di fare scelte più informate quando spendono denaro in beni di consumo, nonché di intentare cause e richieste di risarcimento danni contro le aziende che fanno affermazioni inesatte.

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