economia circolare

Lo scorso 30 novembre si è chiusa la consultazione pubblica sulle linee programmatiche per la definizione della nuova “Strategia nazionale per l’economia circolare”, che il ministero della Transizione ecologica avviò lo scorso 30 settembre. La partecipazione è stata ampia, anche da parte delle aziende che hanno inviato i loro contributi.
Ma, nonostante questa manifestazione d’interesse per la tematica, l’industria italiana risulta essere ancora indietro sulle pratiche manageriali adottate in tema di economia circolare.
Infatti, se le adottasse, al 2030 si genererebbero circa 100 miliardi di euro annui, quasi il 4,5% del Pil nazionale al 2019.
Invece, secondo l’indagine condotta dall’E&S group del Politecnico di Milano, “Circular economy report 2021”, presentata lo scorso 2 dicembre, meno di un’impresa italiana su due ha fatto propria la sfida della circular economy.

Il dato positivo è che, per il primo anno, il 44% di aziende virtuose supera chiaramente la percentuale di coloro che non hanno adottato questi criteri, fermi al 34%.

“L’economia circolare è altra cosa rispetto allo sviluppo sostenibile e alla rispondenza ai criteri Esg, anche se spesso li si confonde”, spiega Davide Chiaroni, direttore dell’Osservatorio sulla circular economy dell’E&S group. “È un approccio che prevede la rigenerazione del capitale naturale, non la ‘semplice’ limitazione del danno ambientale: si minimizzano le risorse usate, ma senza diminuire la crescita economica e sociale, il progresso tecnico e l’innovazione. È una prospettiva complessa perché richiede un ripensamento dell’intero ecosistema di filiera, ma rappresenta una grande opportunità per realizzare nuovi investimenti, perché include una serie di comportamenti che limitano i rischi: di mercato, operativi, di business e legali. Per sintetizzare, non tutto ciò che è sostenibile è circolare, ma tutto ciò che è circolare ha un impatto positivo sulla sostenibilità”.

L’indagine sulla diffusione dell’economia circolare in Italia

L’indagine è stata condotta sulle imprese di sei macrosettori, per valutare lo stato di adozione delle pratiche manageriali circolari, i loro impatti, le principali iniziative messe in atto e i diversi ostacoli.
Il settore delle costruzioni è quello che, con il 60% del campione, ha introdotto almeno una pratica di economia circolare, seguono: food&beverage (50%), automotive (43%), impiantistica (41%), elettronica di consumo (36%), mobili e arredo (23%). Si tratta in media del 44% degli intervistati, poco meno di un’azienda su due, mentre il 40% ha intenzione di porvi rimedio.
Il 34% è costituito da chi ancora non ha adottato alcuna pratica in ottica di economia circolare e non intende farlo in futuro.
Il livello raggiunto nella transizione verso l’economia circolare si basa su un punteggio medio che è pari a 2,02 su una scala da 1 a 5, praticamente una fase ancora iniziale.

Le pratiche maggiormente adottate

Tra le pratiche maggiormente adottate emergono: Design for environment (35% dei casi) e Design for recycle (28%), poi Take back system (27%) e Design for remanufacturing/reuse (22%), mentre le pratiche di Design for disassembly, Design out waste e Product service system non sono ancora molto diffuse.
Le aziende quindi, si concentrano sulla fase di progettazione dei prodotti per ridurre il loro impatto ambientale. Solo il 23% del campione partecipa a un ecosistema di simbiosi industriale, nell’83% dei casi ottiene benefici in termini di risparmi materiali e nel 50% di CO2 prodotta. Il 29% fa campagne di comunicazione o promozione delle proprie attività di economia circolare e altrettante dicono pensarci per il futuro.

I benefici economici dell’economia circolare

L’introduzione di pratiche manageriali per l’economia circolare genera benefici anche economici per le imprese: tra il 2016-2019, per gli adopters la crescita media del fatturato è stata del 6%, di poco inferiore a quella dei non adopters (7%), ma i primi hanno registrato una crescita media significativa dell’Ebitda, 8% contro 5%.

Le barriere all’adozione di pratiche circolari

I principali ostacoli all’adozione di pratiche circolari sono rappresentate: dall’incertezza normativa, dagli elevati investimenti e dalla relativa variabilità dei flussi di risorse. Invece benché costose, sono ritenute adeguate le soluzioni tecnologiche.

Il potenziale dell’economia circolare in Italia

Ipotizzando di mantenere la stessa dimensione del mercato del 2019, l’adozione di pratiche manageriali per l’economia circolare nei sei macrosettori analizzati, potrebbe liberare un potenziale economico di 98,9 miliardi di euro annui al 2030, in particolare 37 nelle costruzioni, 20,2 nel food&beverage e 18,2 nell’automotive.
Il contributo maggiore deriverebbe dal Take back system (circa 24,7 miliardi di euro di risparmio), dal Design for remanufacturing/reuse e dal Design for disassembly (circa 19,8 miliardi di euro ciascuno).

Le piattaforme per l’economia circolare

Le piattaforme digitali stanno avendo un ruolo fondamentale nella transizione verso un’economia circolare, favorendo lo scambio di domanda e offerta di prodotti e riducendo il consumo nei cicli produttivi. Il loro utilizzo può aiutare a estendere il ciclo di vita dei prodotti e delle risorse, ridurre l’utilizzo delle materie prime e la produzione di rifiuti, facendo fronte a tre specifiche funzioni: scambio, condivisione, raccolta e condivisione.
L’Osservatorio ha mappato alcune piattaforme a livello italiano, europeo ed extra-EU e ne ha individuate 51.

La metà sono della tipologia “scambio” e si concentrano sul riutilizzo di beni e materiali ancora nel pieno del loro ciclo di vita.
Undici appartengono invece alla tipologia “condivisione”, dove il percorso per la diffusione di soluzioni di reimpiego di risorse e materiali è ancora in fase di sviluppo, nove piattaforme si dedicano al B2B e hanno dimensione nazionale.
Infine, un quarto delle piattaforme mappate appartiene alla tipologia “raccolta e condivisione”, sono 14, operano solo in ambito B2C e trattano beni di diverso genere.
Nel primo caso, invece, si tratta di piattaforme attive in diversi Paesi, con dimensioni importanti e caratterizzate da servizi di livello “medium” e “premium”, come ad esempio il ritiro dei beni e la valutazione dell’impatto economico e ambientale.

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