Oggi, accendere una luce è un gesto senza peso. Un clic, una risposta immediata. Non c’è sforzo, non c’è attesa, non c’è suono. La casa si illumina, il telefono risponde, il riscaldamento parte. Ma in quell’istante, qualcosa di più profondo si spezza. Non sentiamo più il legame tra ciò che facciamo e ciò che accade. L’energia non è mai stata così abbondante, né così distante. Scorre silenziosa sotto i pavimenti, dentro i muri, oltre gli schermi. Non la vediamo perché non la cerchiamo più nel gesto, ma nella funzionalità. L’interruttore ha sostituito l’azione, il dispositivo ha cancellato la consapevolezza.
Questa distanza non è solo tecnica. È etica, percettiva, culturale. Perché l’essere umano non è mai stato separato dalla tecnica. La tecnica è ciò che lo definisce.
Non siamo una specie che ha costruito strumenti. Siamo una specie che è cresciuta diventando i propri strumenti. Ma se questa simbiosi diventa automatismo, se il gesto perde corpo, perdiamo anche noi una parte della nostra umanità. Allora, la crisi energetica non comincia con l’inquinamento. Comincia quando smettiamo di vedere ciò che facciamo.
La tecnica non è neutra: è la nostra forma
Non è l’energia che ci manca. È la coscienza del suo uso. Ogni tecnologia nasce per amplificare qualcosa: una forza, una funzione, una possibilità. Una ruota prolunga la gamba. Una rete elettrica prolunga il fuoco. Ma ogni estensione cambia anche chi la usa. La ruota modifica lo spazio, il fuoco riscrive il tempo, la rete spezza la percezione del limite.
Siamo esseri tecnici. Non per scelta, per natura. Non c’è mai stato un ‘prima’ naturale e un ‘dopo’ artificiale. La tecnica non è un’aggiunta. È ciò che ci fa umani.
Come ha scritto Umberto Galimberti, «la tecnica non è uno strumento neutro. È il nuovo ambiente in cui abitiamo». Non la usiamo più dall’esterno, ci siamo immersi dentro. È il nuovo paesaggio dell’umano. Ma quando il gesto scompare, quando lo strumento diventa invisibile, la nostra partecipazione svanisce. Non ci chiediamo più come funziona un impianto, né da dove arriva la luce. Ci basta sapere che c’è. E questo sapere parziale è una forma di oblio attivo.
Non è la tecnologia il problema. È il modo in cui la viviamo: passivamente, acriticamente, senza relazione. Recuperare la consapevolezza energetica non significa diventare esperti di kilowattora. Significa rimettere in contatto l’azione con il suo effetto. Restituire corpo alla scelta, tempo al pensiero. Solo così la tecnologia può tornare a essere prolungamento e non sostituzione.
Il gesto spezzato: quando l’azione non ci appartiene più
Ogni azione produce un effetto. Ogni effetto rimanda a un’origine. Ma oggi questo filo si è spezzato. Accendiamo, usiamo, attiviamo. Ma non percepiamo più cosa accade dopo. Un clic fa partire una catena invisibile. Energia prodotta altrove, trasportata, trasformata, dissipata. Il filosofo Albert Borgmann ha parlato di ‘dispositivi’ che ci offrono risultati (luce, calore, connessione) ma nascondono la struttura che li genera. Il gesto resta, ma si svuota. Il mondo funziona, ma noi non lo sentiamo più.
Nulla di ciò che mettiamo in moto ci chiede partecipazione. Non c’è resistenza. Non c’è attrito. E senza attrito, non c’è memoria. Nel passato, ogni gesto richiedeva corpo. Raccogliere legna. Portare acqua. Aspettare il vento. Non era romanticismo. Era consapevolezza incorporata. Oggi siamo lontani da tutto questo. Non perché siamo diventati pigri, ma perché abbiamo progettato un mondo che ci solleva da ogni frizione. Abbiamo chiesto alla tecnica di liberarci dalla fatica. Lei lo ha fatto. Ma ci ha tolto anche il senso della responsabilità. Quando l’azione diventa istantanea, l’effetto diventa impalpabile. Quando non vediamo il processo, non sentiamo il costo. E così il consumo energetico si dissolve nell’abitudine. Non perché non vogliamo sapere, ma perché il sistema non ci chiede di sapere.
C’è un punto in cui il progresso si rovescia in passività. Un punto in cui la tecnica, invece di potenziare, sostituisce. Non è un errore. È una soglia. Se non la attraversiamo con coscienza, restiamo utenti disinnescati, non più attori del nostro mondo.
Riannodare il filo significa questo: non rinunciare al comfort, ma ritrovare il legame tra ciò che facciamo e ciò che accade. Perché solo chi sente il gesto, può decidere in modo etico.
L’energia non è un numero, è una relazione
Parlare di energia oggi significa parlare in cifre. Tonnellate equivalenti di petrolio. Kilowattora. Emissioni di CO2. Efficienza, risparmio, neutralità. Ma queste unità non ci toccano. Non cambiano il nostro modo di vivere. Restano fuori dal corpo, fuori dal gesto.
L’energia, invece, è sempre stata una relazione. Tra il corpo e la risorsa. Tra il tempo e il risultato. Tra la scelta e il mondo. Una candela che si consuma, un braciere che si spegne, una corrente d’acqua che rallenta. Segnali visibili, esperienze tangibili. L’energia non era solo usata. Era sentita. Oggi no. La luce non si affievolisce. Il gas non ha odore. Il server non fa rumore. Tutto accade senza tracce. E senza tracce, non possiamo costruire coscienza.
L’invisibilità del consumo non è neutra. Ci deresponsabilizza. Non ci chiede nulla. Non ci interpella. Possiamo lavorare, comunicare, spostarci, produrre contenuti, senza mai porci la domanda: che cosa sto consumando? E chi lo paga? Non solo in termini economici, ma ambientali, materiali, umani. Le energie rinnovabili, l’efficienza, le tecnologie verdi sono strumenti importanti. Ma non bastano da sole. Possono diventare l’ennesima forma di invisibilità, l’ennesimo sistema che funziona da sé.
L’efficienza energetica, in particolare, rischia di accentuare la distanza tra gesto e conseguenza. Più un’azione consuma poco, più diventa impercettibile. Una luce Led si può lasciare accesa. Un motore elettrico si può usare senza pensarci. Ma se il gesto non oppone resistenza, se non lascia traccia, finisce per perdere anche il suo significato. L’efficienza riduce il costo, ma può anestetizzare la coscienza. Il paradosso è noto. Tecnologie più efficienti non sempre riducono il consumo. Spesso lo moltiplicano. È il cosiddetto ‘effetto rimbalzo’: se qualcosa consuma meno, tendiamo a usarla di più. E così l’energia risparmiata si dissolve nell’uso.
L’efficienza è una conquista tecnica, ma se non è anche una conquista percettiva, rischia di diventare solo un altro modo per non vedere. Una transizione energetica vera non può basarsi solo su nuove fonti. Deve fondarsi su un nuovo rapporto con la tecnica. Un rapporto fatto di presenza, di attenzione, di partecipazione. Di gesti che riconosciamo, di effetti che accettiamo, di limiti che abitiamo. Solo allora l’energia torna a essere non un dato, ma un patto. Non un flusso da ottimizzare, ma una relazione da onorare.
Per un’etica del gesto tecnico
Ogni tecnologia è una scelta. Non solo per ciò che fa, ma per il modo in cui ci trasforma. Uno strumento non è mai solo un mezzo. È anche un linguaggio. Una forma che ci educa.
Un pulsante, una notifica, un algoritmo: modificano la postura del corpo, la direzione dello sguardo, la soglia dell’attenzione. Ci rendono più veloci, ma anche più remoti. Più efficienti, ma forse meno consapevoli.
Per questo la questione energetica non può limitarsi alla tecnica. Richiede un’etica. Ma non l’etica astratta delle dichiarazioni di intenti. Serve un’etica del gesto. Che cosa significa premere un interruttore? Che tipo di relazione attiviamo? Che catena di azioni, materiali, persone, infrastrutture si muove? Non serve diventare specialisti per capirlo.
Serve tornare a riconoscere la profondità del gesto quotidiano
Ivan Illich parlava di ‘strumenti conviviali’: tecnologie che non si sostituiscono al gesto, ma lo rafforzano, permettendo all’utente di restare agente e non spettatore. È questa la differenza tra un sistema abitabile e un sistema che ci abita. Una comunità energetica, allora, non è solo una buona pratica. È un esercizio di responsabilità condivisa. Un modo per rimettere in circolo la relazione tra chi consuma e chi produce, tra chi decide e chi subisce. Perché non c’è etica possibile senza coscienza del limite.
E non c’è limite visibile senza un legame vivo con il mondo tecnico. Ritrovare l’etica del gesto non è un ritorno al passato. È un passo in avanti: verso una tecnica abitata, vissuta, compresa. Verso una cittadinanza non solo energetica, ma pienamente umana.
Torniamo a vedere ciò che facciamo!
Non serve più energia. Serve più consapevolezza. Più attenzione a ciò che accade quando un gesto accende un sistema, consuma una risorsa, attiva una rete. Per troppo tempo abbiamo guardato alla tecnica solo come potenza. Ciò che ci permette di fare di più, più in fretta, con meno fatica. Ma ora, in questo tempo sospeso tra crisi ecologica e accelerazione continua, servono domande diverse. Non cosa possiamo fare in più. Ma cosa possiamo fare meglio. Non come rendere invisibile il consumo. Ma come renderlo leggibile, sensato, abitabile.
La transizione ecologica non si gioca solo su tecnologie nuove. Si gioca nel rapporto che scegliamo di avere con quelle che già abbiamo. Nel recuperare il legame tra l’azione e l’effetto. Tra il gesto e la materia. Tra il corpo e il mondo. Non possiamo continuare ad agire senza vedere. Perché è lì, in quella cecità quotidiana, che si annida l’alienazione più profonda.
Tornare a vedere ciò che facciamo non è solo un atto tecnico. È un atto di coscienza. Un gesto umano, prima ancora che ecologico. E forse è proprio da lì, da un gesto semplice e consapevole, che possiamo ricominciare. Per chi progetta tecnologie, disegna dispositivi, costruisce città o scrive politiche, questa consapevolezza non è più un optional, è un dovere. Perché ogni scelta tecnica è anche una scelta morale. E ogni infrastruttura è una forma di educazione collettiva.
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