Carbon capture storage Ccs
foto Pixabay

A livello internazionale la Ccus (Carbon dioxide capture & utilization or storage) è considerata uno strumento importante per consentire la decarbonizzazione del sistema energetico.

Secondo il Wwf, che ha commissionato al think tank sul clima Ecco lo studio dal titolo Ambiguità, rischi e illusione della Ccs – Ccus. Criticità connesse allo sviluppo in Italia di una tecnologia più rischiosa che utile, realizzato insieme a Energia per l’Italia, non è una tecnologia efficiente, soprattutto nell’attuale contesto di transizione energetica.

Cos’è il CCus

La tecnologia Ccus impedisce l’emissione in atmosfera della molecola di anidride carbonica, principalmente attraverso due fasi: nella prima, le molecole di anidride carbonica vengono catturate e separate dalle altre. Nella seconda fase, l’anidride carbonica viene stoccata in depositi situati nel sottosuolo, ad esempio giacimenti di idrocarburi esauriti, che la contengono senza perdite. Oppure, nel caso del suo utilizzo, può essere impiegata per produrre altre sostanze, attraverso una trasformazione chimica.

“Facendo oggi il punto della situazione”, Maria Grazia Midulla, responsabile clima ed energia del Wwf Italia intervenuta in apertura del webinar, “vediamo che negli anni la Ccs è stata utilizzata investendo soldi pubblici e con esiti deludenti. Come Wwf abbiamo detto, verifichiamo e vediamo, ma dopo venti anni di sperimentazioni, prendiamo atto che questa non è la soluzione su cui puntare. Al contrario, dai diversi report che stanno uscendo, si raccomanda una riduzione delle emissioni rapida costante ed incisiva”. “Nel dibattito attuale”, continua Midulla, “la Ccs è vista come modo per rinviare l’azione e per fare in modo che le fonti fossili rimangano al centro del discorso energetico e secondo Wwf, questo non è ammissibile”. 

I risultati negativi delle esperienze di Ccs: energivora, costosa e inefficiente

“Quando viene invocata la Ccs si tende a dimenticare che non è una cosa nuova, ma esiste almeno da cinquant’anni ed è tuttora legata al mondo upstream oil&gas”, commenta Michele Governatori, lead energia del think thank Ecco. “Sostanzialmente, l’industria petrolifera usa la Ccs per coprire una parte non risolutiva delle emissioni, inoltre è una tecnologia associata a un mondo destinato a comprimersi e a finire, affinché ci sia una transizione ordinata”.

Il potenziale di Ccs totale è lontano dagli obiettivi delle emissioni

Da uno studio pubblicato nei giorni scorsi su “Earth”, emerge che nel 2050 il potenziale di Ccs totale a livello globale, difficilmente supererebbe i 700 milioni all’anno. In realtà, come evidenziato in sede d’evento, solo per correggere le azioni rispetto agli obiettivi di Parigi servirebbero cinque miliardi di riduzioni. Se poi si va a vedere il potenziale del Ccs più efficiente di progetti futuribili (Direct air capture) è delle dimensioni di decine di migliaia di tonnellate di CO2 all’anno, fattibile solo in un modo altamente energivoro per eseguire la separazione, affatto conveniente.

Il retrofitting difficilmente è efficiente: il rischio intrinseco è che non risolve il problema alla base ma lo nasconde sotto terra. Inoltre, nel lunghissimo periodo bisognerà assicurarsi che non ci siano perdite. La necessità di controllo ed enforcement richiesta è ingente: bisognerà garantire controlli anche tra 200 anni.

Ecco perché la Ccs non riflette i principi dell’economia circolare

Il professore emerito di fisica tecnica ambientale al Politecnico di Milano, Federico Maria Butera, fa una critica dal punto di vista dell’economia circolare: “L’economia circolare si ispira al principio di produrre qualsiasi cosa minimizzando il rifiuto finale, imitando i processi naturali. Nel caso della Ccs, le cose non stanno così, perché io prelevo, dopodiché il prodotto non viene rimesso nel ciclo per essere riutilizzato, ma viene semplicemente nascosto e bloccato e questo non è affatto circolare. Siamo lontani con questo approccio dal modello che dobbiamo seguire in termini di CO2 energetici, ma anche in termini di legame alla circolarità, che non viene assolutamente presa in considerazione”.

Inoltre, secondo il prof. Butera, la Ccs si porta dietro il problema che dobbiamo abbandonare una certa logica per adottarne un’altra. Poi, continua, “l’impatto ambientale della Ccs sugli ecosistemi è notevole, perché bisogna fare una rete di tubazioni analoga a quella del gas, in quanto i pozzi di CO2 non sono prossimi, perciò va prelevata e portata da un’altra parte, devastando e costruendo ancora. Ecco che allora, siamo lontani e non c’è alcuna ragionevolezza in questa tecnologia”, conclude.

L’esperimento pilota dell’Italia

“In Italia, una decina di anni fa”, afferma Governatori, “si fece un esperimento pilota molto piccolo di cattura di una piccola parte di fumi della centrale termoelettrica a carbone di Brindisi. Questa parte sarebbe stata trasportata in autobotte fino al piacentino, in cui sarebbe stata stoccata in un piccolo giacimento di gas esausto e questa CO2 avrebbe dovuto essere reiniettata. Avrebbe, perché sui dati pubblici del Mite, in realtà non abbiamo trovato traccia delle quantità che sarebbero state effettivamente reiniettate. Quindi è probabile che non si sia fatto nulla, perché magari si sono incontrate delle difficoltà, oppure non se ne sa nulla, e questo allora è preoccupante”, conclude Governatori. 

Quale alternativa alla Ccs per acciaierie e cementifici?

Se nel breve periodo la Ccs non è più promettente delle rinnovabili, nei settori di nicchia e “hard to abate” potrebbe essere necessario tenere una quota di Ccs, come spiega Giulia Novati, ricercatrice presso Ecco think tank.

Le tecnologie disponibili per l’acciaio

Per quanto riguarda acciaierie e cementifici ci sono due diversi ragionamenti da fare: per quanto riguarda l’acciaio ci sono già delle tecnologie disponibili per la sua produzione che permettono di ridurre fortemente, se non addirittura azzerare, le emissioni di anidride carbonica.

La tecnologia più promettente è la “Direct reduced iron”, che permette di eliminare gli altiforni e quindi l’utilizzo del carbone per la produzione di acciaio e di produrlo utilizzando, o gas naturale (così viene già fatto in molti Paesi del Medio Oriente e in questo caso si hanno ancora delle emissioni di CO2) oppure la stessa tecnologia, ma alimentata a idrogeno verde, quindi a partire da energia elettrica rinnovabile. Questa soluzione permette di continuare a produrre acciaio primario da rottame ferroso, però decarbonizzando il processo produttivo. 

“É vero che gli investimenti richiesti sono elevati”, afferma Novati, “però a livello tecnologico si può fare e non ha un livello di maturità tecnologica paragonabile a quello della Ccs, poiché siamo a un livello superiore”. 

La produzione del cemento e i diversi tipi di emissioni

Per quanto riguarda invece i cementifici c’è da fare una distinzione, perché in questo caso si hanno due tipi di emissioni: quelle di processo e quelle da combustione. “Queste ultime, non sono il grosso problema, continua Novati, perché anche in questo caso si possono cambiare le fonti o i vettori energetici. Il vero problema dei cementifici sono le emissioni di processo, che derivano dalle reazioni chimiche che servono per produrre il cemento e sono perciò inevitabili. Ci sono soluzioni che permettono di ridurle, come il “Low carbon cement”, ma in questo momento non sono ancora molto sviluppate. Pertanto, in questo caso la Ccs per la cattura della CO2 si può tenere in considerazione e pensare come un’alternativa, ma si parla solo delle emissioni di processo per il cemento, non di tutta l’industria”, conclude. 

Ccs e sismicità indotta

Il sottosuolo dal punto di vista geologico è estremamente complesso e non lo conosciamo completamente, però si sospetta che, così come per il fracking, anche per il Ccs possa esserci un legame con la sismicità indotta. 

Massimiliano Varriale, consulente energia del Wwf Italia dichiara: ”C’è una casistica di studi abbastanza ampia che conferma come una qualsiasi attività di ingenti reiniezioni di fluidi, a prescindere dal settore, determini fenomeni di sismicità indotta o innescata. Quindi, quando si vanno a iniettare grandi quantitativi di gas o fluidi, si possono andare ad innescare fenomeni sismici, laddove vi sono delle faglie attive. È stato dimostrato ampiamente negli ultimi anni nel comparto geotermico, vicino a Strasburgo, dove sono state registrate delle attività relative all’iniezione dei fluidi”.

Tant’è, continua Varriale, “che se si va a vedere a livello di documentazione sul sito del ministero della transizione ecologica, finalmente anche nelle procedure di Via o di Vas, c’è proprio il monitoraggio del rischio di sismicità indotta o innescata, perché è un problema che non può essere trascurato in nessun modo. Il problema non è di microsismi, perché se si va a intervenire su faglie attive e su equilibri molto fragili, come in Italia, si possono innescare sismi anche del quinto o sesto grado della scala Richter, detto dai tecnici dell’Ingv. Quindi bisognerebbe  chiedere a chi vuole fare la Ccs, se si assume la responsabilità di mettere in moto dei meccanismi che potrebbero essere disastrosi dal punto di vista dell’impatto su cose e persone”. 

Conclude Midulla: “Noi dobbiamo pensare a soluzioni che pensano al futuro e non al passato, la Ccs è una soluzione d’emergenza che fa rimanere in essere le soluzioni a cui siamo abituati. Abbiamo dei sistemi che sono attuali e in essere e che hanno molte meno controindicazioni della Ccs. La nostra di oggi è una corsa contro il tempo dei cambiamenti climatici e siamo ancora lontani dall’aver messo in campo tutto ciò che è necessario”.

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Professionista delle Relazioni Esterne, Comunicazione e Ufficio Stampa, si occupa di energia e sostenibilità con un occhio di riguardo alla moda sostenibile e ai progetti energetici di cooperazione allo sviluppo. Possiede una solida conoscenza del mondo consumerista a tutto tondo, del quale si è occupata negli ultimi anni.