I capi Shein contengono sostanze chimiche pericolose: l’inchiesta di Greenpeace

Il modello di business di Shein, marchio cinese di ultra-fast fashion, non è sostenibile a livello sociale né ambientale. L’ultima conferma arriva da Greenpeace.

  • Nel 2020, Shein ha guadagnato quasi dieci miliardi di dollari.
  • Sul suo sito si possono acquistare capi sempre diversi a prezzi irrisori che, tuttavia, nascondono insidie pericolose.
  • Il commento di Filctem e Greenpeace.
Shein
Laboratorio Shein © Kay Michalak/Greenpeace

Sono sempre di più i video legati alla moda che circolano su TikTok, il noto social media. Dai consigli di stile ai cosiddetti fit check, cioè il controllo dell’outfit prima di uscire, fino agli unboxing, ovvero l’apertura dei pacchi contenenti gli acquisti effettuati. Fra i marchi protagonisti di questi brevi filmati ce n’è uno cinese di moda online che piace soprattutto ai giovani: parliamo di Shein. Secondo un rapporto del dicembre 2020, quell’anno il brand ha guadagnato quasi dieci miliardi di dollari. È apprezzato da molti consumatori perché propone costantemente nuovi modelli a prezzi bassissimi, tanto da rientrare nella categoria dell’ultra-fast fashion. A pagare il prezzo di questi abiti, però, sono i dipendenti – che lavorano 18 ore al giorno per quattro dollari a capo – e l’ambiente.

Shein non è l’unico marchio che viola i diritti dei lavoratori

“Sappiamo da anni che c’è uno sfruttamento della manodopera nei Paesi in via di sviluppo. Siamo abituati a chiamarli così, ma la Cina per esempio è talmente grande che alcune città sono più sviluppate delle nostre”, spiega Sonia Paoloni, segretaria nazionale della Filctem CGIL, organizzazione sindacale nazionale cui aderiscono lavoratori della chimica, del tessile, dell’energia e delle manifatture. “Non è Shein il primo marchio che viola i diritti dei lavoratori. Noi abbiamo discusso con le catene delle multinazionali che hanno iniziato a lavorare in questi Paesi e immettere nel mercato prodotti a basso costo con un ricambio continuo. Sono capi che hanno inquinato sia il settore sia l’ambiente, perché durano poco e producono molto scarto. Sono realizzati con materiali che da noi non sono consentiti per via del regolamento REACH. All’ingresso in Europa, i prodotti che non rispettano questi parametri dovrebbero essere distrutti, ma con l’e-commerce diventa difficile”.

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Protesta contro la moda “tossica” © Greenpeace/Hati Kecil Visuals

L’indagine di Greenpeace

In un rapporto del 23 novembre, Greenpeace ha svelato che i capi di Shein contengono sostanze chimiche tossiche, fra cui composti organici volatili, alchilfenoli etossilati, formaldeide, ftalati, PFAS e metalli pesanti. La sezione tedesca dell’organizzazione ambientalista ha preso in esame 47 prodotti, fra cui abiti e calzature per uomo, donna, bambino e neonato, acquistati in Italia, Spagna, Svizzera, Germania ed Austria. E ha scoperto che il 15 per cento di essi conteneva quantità di sostanze chimiche pericolose superiori ai livelli consentiti dalle leggi europee, in particolare dal regolamento REACH citato anche dalla dottoressa Paoloni. Nel 32 per cento dei casi, le concentrazioni di tali sostanze raggiungevano comunque livelli preoccupanti.

Le conseguenze ambientali e i rischi per la salute

“Quello che troviamo in un capo di abbigliamento è solo una minima parte di tutto ciò che viene utilizzato nelle varie fasi di lavorazione. Se troviamo quantitativi elevati di residui chimici in un abito, un accessorio o un paio di scarpe, vuol dire che è stato fatto un massiccio uso di sostanze durante la produzione. Le maggiori emissioni avvengono nei siti di produzione, esponendo primariamente i lavoratori ad elevati rischi di natura sanitaria. Dopodiché, queste sostanze vengono sversate nell’ambiente attraverso gli scarichi e quindi vanno a impattare sulle comunità che vivono in prossimità degli insediamenti produttivi; alcune si degradano con estrema difficoltà e a volte vanno a finire addirittura nel cibo”, chiarisce Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna inquinamento di Greenpeace Italia.

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“Nel caso dei capi di abbigliamento, è difficile mettere in correlazione la presenza di questi composti con l’insorgenza di determinate patologie. Alcuni dati della comunità europea, però, indicavano qualche anno fa come la crescita di dermatiti da contatto fosse in qualche modo riconducibile proprio alla presenza di residui chimici nei capi di abbigliamento. Il nichel e la formaldeide, fra le sostanze trovate nei capi Shein, sono noti per la loro capacità di scatenare reazioni allergiche. Ad elevate concentrazioni, la formaldeide è classificata come un possibile cancerogeno per l’uomo.

Shein
Uno dei capi analizzati da Greenpeace Germania © Emanuel Büchler/Greenpeace

Perché la fast fashion è insostenibile

In base alle stime di Greenpeace, l’industria della moda è responsabile di circa il 10 per cento delle emissioni globali di gas serra e rappresenta una delle principali cause di inquinamento delle acque in tutto il mondo. Oltre l’80 per cento degli impatti ambientali si verificano nei paesi del sud del mondo, dove viene prodotta la stragrande maggioranza dei vestiti che finiscono sul mercato globale.

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“Quello della fast fashion è un modello di produzione insostenibile perché produce a ritmi vertiginosi capi che hanno una scarsa durata, sono tendenzialmente di bassa qualità e difficilmente riciclabili: nel mondo, solamente l’1 per cento dei nuovi abiti viene prodotto a partire da vecchi vestiti. Secondo alcuni dati, il 30 per cento delle microplastiche deriva proprio dai prodotti tessili: le fibre sintetiche, ampiamente diffuse, derivano dalla raffinazione dei più comuni idrocarburi. Shein va persino oltre, perché produce nell’arco di pochissimi giorni abiti usa e getta dai costi irrisori, pensati per diventare dei rifiuti”, prosegue Giuseppe Ungherese.

Greenpeace e Shein
L’analisi dei tessuti e delle sostanze chimiche contenute © Kay Michalak/Greenpeace

La campagna Detox

In seguito alla pressione generata dalla campagna Detox di Greenpeace, le principali aziende del settore stanno ripulendo le proprie filiere produttive per affrontare il problema dell’inquinamento delle acque. “Nel 2011 abbiamo lanciato questa campagna perché, per effetto delle delocalizzazioni che stavano interessando varie attività industriali, stavano emergendo sempre più prove dell’inquinamento delle acque da parte delle aziende. Da questo punto di vista, il settore tessile rappresenta il secondo settore produttivo più inquinante a livello globale. Abbiamo lanciato la campagna per spingere le aziende a fare a meno delle sostanze chimiche pericolose, sostituendole con alternative più sicure. Oggi, a distanza di undici anni, possiamo dire che il 15 per cento del settore tessile e moda su scala globale (in termini di fatturato) ha adottato i nostri standard”, puntualizza Ungherese.

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L’inquinamento del fiume Tullahan, nelle Filippine © Gigie Cruz-Sy/Greenpeace

Il problema dei rifiuti tessili

C’è poi la grande questione dello spreco. Ogni secondo, nel mondo, un camion di rifiuti tessili viene bruciato o smaltito in discarica. In Europa si stima che i prodotti distrutti nel solo 2020 – se impacchettati singolarmente in scatole di 45 centimetri – farebbero il giro del mondo 1,5 volte. “In Italia, fortunatamente, non produciamo fast fashion: siamo il primo Paese nel mondo per la produzione della moda di lusso. L’80 per cento dei prodotti viene esportato, ma si parla comunque del segmento dell’alta moda. In Italia non si può lavorare nel settore della ‘moda veloce’ perché abbiamo leggi e tassazioni che non lo consentono. Per questo, le aziende italiane non si sentono eccessivamente minacciate da marchi come Shein”, conclude la segretaria Filctem. “Neppure il Black Friday raccoglie molte adesioni nel mondo dell’alta moda. Semmai, qualche sconto può essere proposto da marchi come Benetton o Sisley, ma difficilmente si tratta di sconti superiori al 20-30 per cento”.

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Il deserto di Atacama, in Cile, ricoperto di rifiuti tessili © Cristobal Olivares/Greenpeace

La Strategia della Commissione europea

È vero, ci sono capi che costano molto e in questo momento così difficile, caratterizzato da incertezza economica e inflazione, puntare sul risparmio non è stupido. Pensiamoci, però: si tratta davvero di una questione di risparmio? Spesso, preferiamo acquistare più capi che costano poco anziché comprarne uno solo allo stesso prezzo. Però quei capi durano meno, costringendoci a sostituirli nel giro di breve tempo. Probabilmente sono in materiali sintetici, che possono provocare prurito ed eccessiva sudorazione, per non parlare delle microplastiche che rilasciano nelle acque ad ogni lavaggio.

Se ci piace comunque variare il guardaroba, possiamo investire in abiti di seconda mano, che vanno sempre più di moda, o giocare con gli abbinamenti: una semplice camicia può cambiare notevolmente se abbinata a una gonna, a un pantalone; indossata da sola o sotto una giacca. Fortunatamente, nel marzo scorso la Commissione europea ha diffuso la Strategia dell’UE per prodotti tessili sostenibili e circolari: segnerà davvero la fine della fast fashion?

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Nata in provincia di Sondrio, ha studiato a Milano e Londra. Giornalista pubblicista, si occupa di questioni legate alla crisi climatica, all’economia circolare e alla tutela di biodiversità e diritti umani.