Svolta UE sulla rendicontazione di sostenibilità per le imprese

Accordo tra Consiglio e Parlamento EU per tagliare gli obblighi delle imprese

In un momento cruciale per la politica industriale europea, le istituzioni di Bruxelles hanno impresso una virata alla tabella di marcia della sostenibilità aziendale. La presidenza del Consiglio e i negoziatori del Parlamento europeo hanno siglato un accordo provvisorio che riscrive i confini delle direttive Csrd (rendicontazione) e Cs3d (due diligence). L’obiettivo dichiarato è il rafforzamento della competitività dell’Unione Europea attraverso una drastica semplificazione degli oneri burocratici, limitando l’effetto a cascata delle normative sulle piccole e medie imprese. Tuttavia, la mossa solleva interrogativi sulla reale capacità del mercato di monitorare i rischi climatici ed Esg.

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Foto di Christian Lue su Unsplash.

Csrd: nuove soglie e deroghe per holding finanziarie

Il primo pilastro dell’accordo riguarda la Corporate Sustainability Reporting Directive (Csrd). Per allentare la pressione sulle aziende, i colegislatori hanno deciso di innalzare sensibilmente l’asticella per l’ingresso nel perimetro della norma.

Più nello specifico:

  • Dimensioni aziendali: la soglia dei dipendenti sale a 1.000 unità
  • Fatturato: è stato introdotto un limite di fatturato netto superiore ai 450 milioni di euro
  • Esclusioni: le Pmi quotate vengono ufficialmente escluse dall’ambito di applicazione
  • Holding: le società di holding finanziaria godranno di un’esenzione totale.

È stata inoltre prevista una finestra di flessibilità per le cosiddette società della “prima ondata”: quelle che avrebbero dovuto iniziare la rendicontazione dall’anno finanziario 2024 potranno uscire dall’ambito di applicazione per il biennio 2025-2026.

Cs3d: un perimetro ristretto ai giganti del mercato

Le modifiche più radicali riguardano la Corporate Sustainability Due Diligence Directive (Cs3d), la norma che impone alle imprese di vigilare sul rispetto dei diritti umani e dell’ambiente lungo tutta la filiera. Nonostante la proposta iniziale della Commissione non prevedesse tali tagli, l’accordo ha innalzato le soglie a 5.000 dipendenti e 1,5 miliardi di euro di fatturato netto.

La logica dei legislatori è chiara: concentrare gli obblighi solo sulle grandissime aziende, ritenute le uniche capaci di influenzare positivamente la catena del valore e di assorbire i costi amministrativi della due diligence senza compromettere la propria stabilità finanziaria.

Semplificazione dei processi e addio al Piano di transizione

L’accordo introduce importanti cambiamenti nelle modalità con cui le aziende devono analizzare i propri rischi. Non sarà più necessaria una mappatura completa e capillare, ma un’analisi generale basata su informazioni “ragionevolmente disponibili”. Le aziende potranno ora concentrarsi solo sulle aree della catena di attività dove è più probabile che si verifichino impatti negativi gravi. Se vengono identificati rischi di pari gravità, l’impresa avrà la flessibilità di dare priorità ai propri partner commerciali diretti. Una delle decisioni più discusse è però l’eliminazione dell’obbligo di adottare un piano di transizione per la mitigazione del cambiamento climatico, misura rimossa per ridurre sensibilmente il carico di lavoro interno.

Sul fronte legale, l’accordo segna un passo indietro rispetto all’armonizzazione europea, in particolare:

  • Responsabilità civile. Eliminato il regime di responsabilità armonizzato a livello UE. Gli Stati membri non avranno l’obbligo di garantire l’applicazione prevalente delle proprie norme se la legge applicabile è quella di un altro Stato.
  • Sanzioni. Il tetto massimo per le multe è stato fissato al 3% del fatturato netto mondiale dell’azienda.
  • Calendario. Il recepimento della Cs3d è posticipato al 26 luglio 2028, con le prime scadenze di conformità per le imprese fissate a luglio 2029.

Il commento di Ecco: “Rischio di esclusione dai mercati finanziari”

Nonostante l’intento di semplificazione, il think tank italiano per il clima Ecco esprime forte preoccupazione. Secondo l’analisi degli esperti, l’indebolimento di questi standard potrebbe paradossalmente danneggiare proprio le imprese che si vorrebbero proteggere: “Le nuove norme rischiano di ridurre la capacità delle imprese di dimostrare le proprie performance di sostenibilità proprio mentre l’accesso alla finanza dipende sempre più dai fattori Esg” avverte in una nota stampa il think tank.

Beatrice Moro, senior policy advisor finanza sostenibile di Ecco, sottolinea: “Banche e investitori hanno bisogno di dati affidabili per allocare capitale. Indebolire gli obblighi non riduce i costi, ma aumenta il rischio di esclusione dai mercati per chi non saprà dimostrare una traiettoria credibile verso la neutralità carbonica”.

Le ombre del lobbying Usa

L’analisi di Ecco mette in luce anche le forti pressioni esterne che hanno influenzato il voto. Alcuni documenti privati rivelerebbero un’azione coordinata di giganti, supportata dalla diplomazia statunitense, per evitare che le multinazionali americane attive in Europa fossero soggette a controlli troppo severi.

Nonostante le critiche, Ecco riconosce un punto di equilibrio positivo nel mantenimento di un impianto basato sui rischi, che obbliga comunque i grandi player a identificare e prevenire gli impatti negativi seguendo gli standard internazionali. Tuttavia, resta il nodo di una grave riduzione del perimetro di applicazione, che lascia fuori dalla rendicontazione migliaia di aziende, frammentando la trasparenza del mercato europeo.

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