Il modello di vitivinicoltura sostenibile della regione della Champagne

Ne parliamo con il professor Nicolas Béfort, direttore della Cattedra di Bioeconomia e Sviluppo sostenibile della NEOMA Business School, che ha realizzato uno studio sul tema

“Non serve che studiate gli abbinamenti cibo-vino, tanto c’è un vino che sta bene con tutto: è lo Champagne!”. È una delle frasi che il professor Guido Invernizzi è solito dire agli aspiranti degustatori dell’Associazione italiana sommelier. Sarà pure una battuta, ma come tutte le battute nasconde un fondo di verità: lo Champagne è sinonimo di eccellenza, di lusso; è conosciuto e amato in tutto il mondo.

Champagne
La Champagne. Foto di Salah Ait Mokhtar su Unsplash

Ecco perché i suoi produttori hanno il potere di guidare la transizione dell’intero settore vitivinicolo a un modello di business più sostenibile, fondato sulla salvaguardia delle risorse naturali e sulla circolarità. Questa idea è alla base di uno studio inedito condotto dalla Cattedra di Bioeconomia e Sviluppo sostenibile della NEOMA Business School, in collaborazione con la Caisse d’Epargne Grand Est Europe.

L’impatto della crisi climatica sulla produzione di Champagne

La regione vinicola in questione si estende all’interno della storica provincia di Champagne, nel nord-est della Francia. È nota per essere la culla del méthode champenoise, il metodo classico, che si basa sulla rifermentazione in bottiglia per la produzione dei vini spumanti, a partire ovviamente dallo Champagne. I tre vitigni maggiormente impiegati nella denominazione sono Chardonnay, Pinot Noir e Meunier.

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Come la maggior parte delle regioni vinicole del globo, si sta trovando a fare i conti con gli effetti della crisi climatica, che “sta aumentando il contenuto alcolico dei vini, riducendone l’acidità. Quest’ultima è una delle principali caratteristiche dell’identità dei vini della Champagne, il che suggerisce che si evolveranno in futuro”, spiega a Canale Energia Nicolas Béfort, direttore della Cattedra.

Pinot noir, Champagne
Grappoli di Pinot Noir. Foto di Brian Gouwy su Unsplash

“Il riscaldamento globale sta portando a siccità sempre più frequenti, ma il cambiamento climatico provoca anche gelate primaverili. In altre parole, a causa delle temperature troppo elevate che si registrano in anticipo, le viti ‘si svegliano’ prima rispetto a una volta… le gelate però sono ancora possibili in quel periodo dell’anno, con conseguenti gravi perdite nel vigneto. Allo stesso modo, il riscaldamento globale sta favorendo la comparsa di nuove malattie che prima erano presenti solo nei vigneti più a sud”.

La necessità di aumentare la resilienza dei vigneti

I produttori di Champagne, e di vino in generale, si trovano davanti a una grande sfida: quella di proteggere le vigne dall’impatto dei cambiamenti climatici, ma anche dallo sfruttamento eccessivo. Nel caso dello Champagne, “i viticoltori e le Maison decidono collettivamente, poche settimane prima della vendemmia, le quantità di uva da raccogliere: c’è una produzione di circa 16.000 kg/ha e raccolti che da diversi anni sono in media di 10.000 kg/ha. Quindi, un aumento della domanda non porterebbe necessariamente a un forte incremento della produzione di uva”, chiarisce il professore.

Le tre categorie di vignaioli presenti nella Champagne

È per far fronte a questa sfida, ma anche alla crescente richiesta da parte dei consumatori di prodotti più rispettosi dell’ambiente, che i Vigneron sono chiamati a mettere in atto strategie di adattamento e mitigazione. Lo studio realizzato dal team di Béfort mette in luce l’esistenza di tre categorie di organizzazioni più o meno all’avanguardia:

  1. i vignaioli pionieri, impegnati sul fronte della sostenibilità da almeno dieci anni;
  2. i vignaioli novizi, che hanno avviato il proprio percorso virtuoso da meno di cinque anni, concentrandosi principalmente sulla tutela della biodiversità e sul raggiungimento della neutralità carbonica;
  3. i vignaioli con piccoli terreni, produttori di uve che hanno recentemente avviato la conversione all’agricoltura biologica.
Vigneron
Ci sono tre categorie di vignaioli nella Champagne. Foto di Maja Petric su Unsplash

Il ruolo del Comité Champagne

La ricerca della Business School, che ha richiesto tre anni di indagini, analisi dei dati e interviste, evidenzia come l’interazione fra questi tre gruppi e la condivisione delle buone pratiche siano essenziali per accelerare il processo di transizione ecologica. Il Comité Champagne, l’interprofessione che dal 1941 assicura l’interesse comune dei Vigneron e delle Maison di Champagne, svolge un ruolo importante da questo punto di vista.

L’interprofessione è un raggruppamento di vari operatori economici impegnati in una filiera di produzione e/o di commercializzazione comune che ha come obiettivo quello di agire nell’interesse comune di tutti i suoi soci.

“Grazie alla sua storia, la Champagne è costruita su reti molto fitte, alcune delle quali si sovrappongono, e su un riconoscimento reciproco all’interno della denominazione. Tali organizzazioni si spingono fino al cuore dei villaggi della Champagne e, data la loro numerosità, possono talvolta mettere in contatto soggetti molto distanti dal punto di vista geografico, dando loro la possibilità di sviluppare una stretta relazione e collaborazione”, prosegue il professor Béfort.

I due approcci alla sostenibilità

Come appurato dai ricercatori, sono due gli approcci al riorientamento strategico tra i professionisti della regione: l’approccio “a puzzle” e quello “olistico”. Il primo si basa sull’individuazione di obiettivi specifici, legati a singoli aspetti della transizione ecologica (coltivazione, vinificazione, imbottigliamento, trasporto, ecc.), e misurabili tramite appositi indicatori.

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Il secondo guarda invece alla sostenibilità nel suo complesso, concentrandosi sull’ottenimento di certificazioni che attestino la bontà dei metodi di coltivazione, fra cui la Viticoltura Sostenibile in Champagne (Viticulture Durable en Champagne, VDC). Oggi, più della metà dei vigneti ha una certificazione ambientale; l’obiettivo è arrivare al 100 per cento entro il 2030.

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Favorire la presenza degli insetti impollinatori è uno dei pilastri della viticoltura sostenibile. Foto di Alfonso Betancourt su Unsplash

Le raccomandazioni della NEOMA Business School

“Le dimensioni giocano un ruolo importante nella scelta tra i due approcci. L’approccio a puzzle parte dal presupposto che l’azienda sia in grado di esplorare nuove pratiche continuando a produrre. Di conseguenza, deve essere sufficientemente grande e i suoi dipendenti devono essere altamente qualificati in diversi settori per poter contribuire al processo di innovazione. Dal punto di vista organizzativo, è necessario anche un alto livello di flessibilità, che può essere complesso nel caso di vini soggetti a specificazioni”, commenta Béfort.

“Per un’azienda agricola di piccole dimensioni sarà più facile scegliere l’approccio sistemico, concentrandosi principalmente sulla modifica dei metodi di coltivazione, per poi passare, una volta attuati questi cambiamenti, ad altri aspetti per ridurre le emissioni di gas serra. Anche in questo caso, è essenziale che i dipendenti abbiano un alto livello di qualificazione per poter portare a termine con successo la trasformazione”, conclude il professore.

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Riassumendo, la formazione degli attori e la diffusione delle conoscenze in tutte le fasi di ricerca e innovazione, la generalizzazione delle pratiche sperimentali e lo sviluppo di cicli di circolarità “virtuosi” emergono come le principali strategie per soddisfare le ambizioni di sostenibilità del settore.

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Nata in provincia di Sondrio, ha studiato a Milano e Londra. Giornalista pubblicista, si occupa di questioni legate alla crisi climatica, all’economia circolare e alla tutela di biodiversità e diritti umani.