Rifiuti radioattivi. Un deposito per la sicurezza di tutti

800px-INES it.svg“Il deposito nazionale per i rifiuti radioattivi è un diritto dei cittadini e, al tempo stesso, un dovere di questa generazione verso quelle future. E’ un atto preventivo per scongiurare disastri ambientali”. E’ difficile, parlando di nucleare, non contemplare nell’equazione finale il fattore emotivo legato (per molti) alla paura che incidenti come Chernobyl, Three Mile Island o Fukushima si ripetano, questa volta non a migliaia di chilometri di distanza ma al di là del giardino di casa. Vale la pena di ricordare, però, che uno degli incidenti più gravi della storia dell’atomo non è in alcun modo collegato alla produzione di energia. Nel 1987 il recupero di un apparecchio di radioterapia da un ospedale brasiliano abbandonato provocò la morte di 4 persone in due mesi e la contaminazione di quasi 250 persone. In seguito all’incidente di Goiania, classificato di livello 5 nella scala Ines stilata dalla Iaea (International Nuclear Event Scale che va da 0 a 7, dove 6 è considerato “incidente grave”), fu necessario rimuovere 3.500 mc di scorie radioattive per decontaminare il sito nel quale fu disperso il cesio-137 attivo nell’apparecchio.

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Il deposito nazionale, a cui sono riferite le parole di Riccardo Casale (a.d. Sogin) in apertura, ospiterà – nell’arco di 40 anni – circa 90.000 mc di rifiuti radioattivi, di questi il 60% circa proverrà dalle attività di decomissioning affidate alla società ma il restante 40% sarà prodotto da altri settori: medicina nucleare, industria, ricerca. A differenza dei primi, che si esauriranno una volta terminate le attività di smantellamento delle ex-centrali e degli impianti legati alla produzione del combustibile (in Italia i siti sono otto in totale), i rifiuti da usi “non energetici” continueranno a essere prodotti quotidianamente. Anzi, secondo le stime dell’Osservatorio per la Chiusura del Ciclo Nucleare la produzione futura, in questo caso, aumenterà fino a raggiungere 4 volte quella attuale, 500 mc/anno, e quindi circa 2000 mc/anno (che condizionati, ovvero trattati, diventano 200 mc/anno).

Tali rifiuti sono divisi in due categorie: bassa/media attività e alta attività. Tra i primi rientrano tutti quei materiali che possono essere maneggiati senza particolari precauzioni (ci si riferisce per lo più a solidi ma esistono anche in altri stati) e si tratta di “oggetti della natura più eterogenea che provengono da zone ove si lavora con sostanze radioattive, per cui la loro contaminazione è spesso soltanto sospettata” (tratto da Cumo, M., Impianti nucleari, Casa Editrice Università La Sapienza, 2008). Diverso il discorso per i secondi che derivano dal 1° ciclo di estrazione del ritrattamento del combustibile irraggiato: “Si tratta – spiega Cumo nel suo libro – di rifiuti che, allo stato attuale della tecnologia, sono prodotti inizialmente allo stato liquido e presentano una concentrazione di radioattività che in tal uni casi può giungere fino a migliaia di curie per litro. Questi rifiuti sono di solito autoriscaldanti a causa dell’elevata intensità del calore di decadimento e quindi hanno bisogno di sistemi di raffreddamento, oltre che, si intende, di adeguato schermaggio contro le radiazioni” (cit. id.).

Attualmente i rifiuti radioattivi prodotti quotidianamente sono raccolti presso i siti di produzione, mentre quelli derivanti dal settore sanitario, della ricerca e dall’industria sono detenuti in aree di stoccaggio provvisorio. Una situazione complessiva che richiede una soluzione allineata ai migliori standard internazionali di sicurezza. La Direttiva europea 2011/70 Euratom ha imposto ad ogni Stato membro la realizzazione di un deposito che sia in grado di ospitare in sicurezza il combustibile nucleare esaurito e i rifiuti radioattivi anche derivanti dagli impieghi medicali, di ricerca e industriali. Quella del deposito, insomma, non è un’idea italiana ma una decisione che rispetta gli obblighi comunitari.

Nonostante per Sogin e per l’Osservatorio Ccn il deposito rappresenti un atto di prevenzione di possibili disastri ambientali, le popolazioni locali non sembrano condividere questa convinzione. Il fattore “paura” resta alla base di molte contestazioni. Il problema spesso è la mancanza di dialogo e di condivisione con il territorio. “Il nostro Paese ha una geografia particolare – spiega Giorgio Zampetti, responsabile scientifico Legambiente – ci sentiremmo molto più sicuri se i rifiuti ad alta attività venissero mandati all’estero dove ci sono Paesi che hanno ancora centrali aperte e infrastrutture per gestire questi materiali. I cittadini chiedono di essere informati su decisioni che ritengono importanti per la propria sicurezza”. “Negli anni siamo diventati più bravi ad informare – aggiunge Dante Caserta, presidente Wwf – ma sulla condivisione la strada è ancora lunga. Ci aspettiamo che lo Stato metta in atto gli strumenti necessari ma, viste le difficoltà che abbiamo con i rifiuti domestici, qualche dubbio continuiamo a nutrirlo”.

Un appello allo Stato, più in particolare al Governo di Matteo Renzi, arriva dal Movimento 5 Stelle: “La sicurezza della salute dei cittadini e dell’ambiente – afferma il senatore Gianni Girotto, capogruppo in Commissione Industria – non deve essere sottovalutata dallo Stato. La bonifica dei lasciti nucleari, come la realizzazione di eventuali depositi nucleari o ogni operazione di gestione dei materiali radioattivi, in particolare per quelli di alta attività, deve avvenire sotto l’egida di un controllo indipendente, terzo e trasparente che abbia come riferimento anche il coinvolgendo e la partecipazione delle rappresentanze territoriali nelle quali l’attività insiste, come avviene già con i Tavoli della trasparenza che funzionano. Casi improvvisi, come quello avvenuto con lo spostamento di materiale radioattivo dalla Trisaia di Rodondella o l’ultimo viaggio partito da La Spezia, senza l’adeguata informazione, non possono essere tollerati dai cittadini che rivendicano giustamente il diritto alla sicurezza e di informazione”.

“La diffusione dei nuovi media ha creato dei nuovi stakeholder- ha spiegato Claudio Pescatore, membro dell’Osservatorio e responsabile dei programmi di gestione delle scorie e di decommissioning presso l’Ocse – che chiedono di essere informati e coinvolti nei processi decisionali che riguardano il loro territorio. Il nostro impegno sarà quello di combattere l’immagine negativa di questo tema e spiegarne, invece, le opportunità economiche, tecnologiche e culturali”.

L’Osservatorio per la Chiusura del Ciclo Nucleare (leggi l’approfondimento su e7) nasce per rispondere a questa necessità: “Abbiamo voluto creare un attore indipendente che garantisse la massima trasparenza dell’informazione e creasse un canale di comunicazione stabile con tutti gli stakeholder” ha spiegato Edo Ronchi, presidente della Fondazione Sviluppo Sostenibile da cui è partita l’iniziativa.

“Secondo gli orientamenti dell’Onu, il decomissioning rientra a pieno titolo nella green economy – sottolinea il presidente dell’Osservatorio, Stefano Leoni, che prosegue – i numeri che abbiamo presentato non sono allarmanti di per sé ma non possiamo nemmeno sottovalutarli. Quello che ci attende è un lavoro non facile ma è un atto dovuto verso le future generazioni”.

 

Fonte: Osservatorio CCNtimeline

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Giornalista specializzata nel settore energia, attualmente all'ARERA