Moda, l’input verso filiere green parte dal consumatore

Tessile16112015Si intitola “Detox My Fashion” ed è  la campagna di Greenpeace, lanciata nel 2011, che ha come obiettivo quello di sensibilizzare le aziende e i consumatori sull’importanza di una moda ecosostenibile e di filiere prive di sostanze tossiche. Nell’ambito di questa iniziativa vengono presentati, in particolare nel quadro della cosiddetta  ‘Sfilata Detox’ – arrivata quest’anno alla sua terza edizione –  i progressi dei marchi del settore verso l’obiettivo di una completa eliminazione di tutte le sostanze chimiche pericolose entro il 2020. Diciannove in tutto i brand presi in esame. Tra questi, solo per fare qualche esempio, registrano buone performance aziende come Benetton, Zara, H&M mentre nomi  come Esprit, Nike, Victoria’s Secret, pur avendo sottoscritto l’impegno Detox, come si legge sul sito della campagna, “si stanno muovendo nella direzione sbagliata, non  assumendosi completamente le proprie responsabilità per impedire l’inquinamento da sostanze chimiche generato dalle loro filiere produttive”

Insieme a Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace Italia, abbiamo approfondito alcuni argomenti legati all’iniziativa e, più in generale, all’impatto ambientale del settore moda che, nel suo percorso verso filiere più green, vede in un ruolo di primo piano i consumatori. Da loro, infatti, devono venire gli input per l’introduzione di pratiche virtuose che aumentino la sostenibilità delle filiere produttive attraverso il riciclo dei prodotti in un contesto volto ad aumentarne il ciclo di vita. 

 

Qual è l’impatto della filiera dell’abbigliamento sull’ambiente?

 

In generale Il settore tessile è uno dei comparti più inquinanti al mondo. Rapporti recenti della Banca Mondiale stimano che il 20% dell’inquinamento globale che ha un massiccio impatto sull’inquinamento delle acque è determinato proprio da questo settore, secondo a livello mondiale solo all’agricoltura intensiva. Il settore tessile per decenni ha utilizzato i fiumi come delle vere e proprie discariche a cielo aperto e ricorrendo in maniera massiccia alla chimica nelle varie fasi di lavorazione. Questi prodotti chimici vengono riversati nelle acque durante le fasi di lavorazione e poi finiscono negli indumenti che indossiamo tutti i giorni e anche negli scarichi delle nostre lavatrici. Questo fa capire come non siamo di fronte a un problema limitato solo alle aree di produzione, bensì a un problema globale che ha un impatto fortissimo sulla risorsa acqua, un bene di valore inestimabile che serve a ognuno di noi nella vita di tutti i giorni. 

 

In particolare quali sono i processi che inquinano di più e quali sono le sostanze chimiche tossiche che hanno il maggior impatto sull’ambiente?

 Proprio in risposta a questo massiccio utilizzo della chimica nelle fasi di lavorazione tessili è nata la campagna Detox del 2011, pensata per difendere le risorse idriche del pianeta. Numerose sono le lavorazioni del settore tessile che impiegano diverse sostanze chimiche. Noi, con la nostra campagna, ne chiediamo la completa eliminazione. Parliamo di più di 400 sostanze che hanno differenti effetti sull’ambiente, sull’uomo e sugli ecosistemi naturali. Ci sono sostanze cancerogene, allergeni, interferenti endocrini, ovvero le sostanze più disparate che esercitano un insieme di effetti negativi sugli ecosistemi naturali e sull’uomo. Per queste sostanze, proprio perché in grado di generare impatti così forti, non esistono livelli di sicurezza, per questo con la nostra campagna ne chiediamo la completa eliminazione. In generale tra i processi del tessile che fanno più uso della chimica ci sono quelli che in gergo tecnico vengono dette le ‘lavorazioni a umido’: le fasi di tintura, finissaggio, tutti processi dove c’è un impiego massiccio di tanti composti chimici. Di queste sostanze chimiche si può, però, già fare a meno, perché esistono delle alternative sicure. Faccio un esempio: per sgrassare le fibre di lana vengono utilizzate gli Alchilfenoli etossilati (APEO), queste sostanze sono degli interferenti endocrini, agiscono sul sistema ormonale e sono responsabili della femminizzazione dei pesci. In realtà ci sono delle sostanze su base alcolica, i cosiddetti alcoli, che sono innocue per l’ambiente e garantiscono gli stessi effetti. Si tratta, quindi, solo di adeguarsi a queste nuove sostanze. 

 

A livello generale il comparto è sensibile al tema della sostenibilità?

 

Il settore è molto sensibile, però, non è completamente compatto e uniforme nel cammino verso un futuro privo di sostanze tossiche. Faccio l’esempio del caso italiano: noi abbiamo delle aziende molto grandi e molto importanti come Benetton, Valentino, il Gruppo Miroglio che hanno accettato di produrre in modo sostenibile e privo di sostanze tossiche. Altri, invece, non hanno scelto questi standard. In generale in Italia il settore viaggia a due velocità: da una parte ci sono Valentino, Miroglio Benetton e più di 50 aziende tessili italiane, di cui 27 del distretto di Prato, che hanno scelto di produrre secondo i canoni della campagna “detox’ , mentre invece altre aziende non hanno fatto passi concreti nella direzione giusta. 

 

 Tra i vostri obiettivi futuri c’è la volontà di di cercare di allungare il ciclo di vita dei capi d’abbigliamento e favorirne il riciclo. Come procederete al riguardo? 

 

La nostra campagna nei prossimi anni lavorerà su quest’argomento e su due aspetti diversi in particolare. Da un lato con le aziende, perché possono fare molto per allungare il ciclo di vita dei prodotti  magari con servizi di assistenza e riparazione o attraverso l’utilizzo di materiali che siano perfettamente riciclabili e la scelta di un design dei prodotti che favorisca il riciclo. Dall’altra si cercherà di agire sul fronte dei consumatori, perché i consumatori devono essere sempre più consapevoli che il modello di produzione, consumo e immissione in discarica dei capi di abbigliamento, è qualcosa che il nostro pianeta non potrà sostenere ancora a lungo. Sono loro che possono avanzare delle richieste ai marchi per l’adozione di pratiche più virtuose che aumentino il ciclo di vita dei prodotti e ne favoriscano il riciclo. Lavoreremo proprio su questo, perché il  modello attuale di consumo non può reggere. Se consideriamo, ad esempio, il modello del ‘fast fashion’, con collezioni di abbigliamento che cambiano di settimana in settimana, vediamo che l’impatto in termini ambientali sul nostro pianeta aumenta in un modo incredibile. Bisogna rallentare il ciclo, favorire il riciclo dei capi di abbigliamento,  l’upcycling, ovvero lavorare su quei prodotti e dargli un nuovo utilizzo a fine vita. 

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Giornalista professionista e videomaker con esperienze in diverse agenzie di stampa e testate web. Laurea specialistica in Filosofia, master in giornalismo multimediale.